(iviaggiatorigourmet.blogspot.com)
Parlare di Armando Castagno – scrittore, giornalista e critico del vino ma anche storico dell’arte e docente universitario – richiederebbe un intero libro, forse non monumentale come il suo meraviglioso tomo sulla Cote d’Or ma certamente un testo degno di rispetto. Ma anche se non fosse un libro, se ci si limitasse ad un articolo, sarebbe comunque ben più ampio e sfaccettato dell’intervista che seguirà quest’introduzione.
Un’intervista in cui mi sono lanciato con incoscienza ma anche con un pizzico di involontaria impreparazione, che mi ha aperto un mondo ma che al tempo stesso – durante ma soprattutto riflettendoci a mente fredda – mi ha fatto comprendere che i miei attuali limiti, culturali ma non solo, vadano ben oltre il livello che credevo (o volevo) rappresentare.
Ero partito con l’intenzione di farne un primo step all’interno di una serie dedicata ai miei riferimenti in materia di vino, ma onestamente non so se avrò la forza per continuarla, così come non so se troverò altri autorevoli esponenti del giornalismo e della comunicazione enologica che avranno tempo e voglia di ascoltarmi.
Al momento non mi interessa più di tanto, ma quello che però posso dire con certezza è la “lezione” che ho imparato, l’insegnamento che Armando, seppur senza accorgersene e nonostante la sua infinita gentilezza ed affabilità, mi ha trasmesso. E per questo, oltre che per il tempo che ha voluto dedicarmi – tanto o forse anche troppo – non posso che ringraziarlo.
Buongiorno, Dottor Castagno. Eviterei i convenevoli del tipo “grazie mille per aver accettato il mio invito”, oppure “è per me un onore anche solo parlare con lei” domandandole: posso darle del tu?”
Se non lo fai, la chiudiamo qui!
Benissimo. Allora partiamo subito con una domanda inerente al vino. Chi volevi diventare da bambino?
Da bambino, volevo fare il benzinaio; troppo buono l’odore, troppo bello salutare quelli che arrivavano in macchina e tiravano giù il finestrino con la manovella salutando e allungandoti delle gran banconote. Da adolescente il giudice, volevo fare il magistrato. Con questo secondo spirito mi sono prima iscritto e poi laureato in giurisprudenza, con l’idea di tentare il concorso in magistratura. Lavoravo già da anni come giornalista sportivo, era un mestiere che mi piaceva molto, e nella sostanza il concorso in magistratura non l’ho fatto più. Ma non l’avrei nemmeno passato, finendo per scontrarmi con la constatazione di essere inadatti al proprio lavoro, dato che per fare il magistrato occorrono delle doti che io non solo non ho, ma non ho mai avuto. Va quindi bene così, dato che mi ritrovo ad aver scelto una strada per me più propria e percorribile, quella del giornalismo e della critica.
C’è un aneddoto, un momento o un episodio a cui associ la nascita della tua passione enoica?
Il mio avvicinamento al vino è stato cauto e graduale, prima teorico che pratico, dato che mi sono approcciato prima alla letteratura del vino e in un secondo tempo al vino stesso. Ad un certo punto, dopo aver comprato e letto – direi divorato – i vecchi testi di Veronelli, Soldati, Monelli, Brera e altri, ho pensato bene di verificare se nel bicchiere riuscissi ad intravedere la profondità che questi grandi scrittori ed intellettuali trasmettevano nei loro libri, e devo dire che non è stato affatto semplice.
Si può essere seri ed autorevoli senza prendersi mai troppo sul serio?
Forse un punto di buonsenso sta nel prendere molto sul serio la materia e poco se stessi. Io prendo sul serio la materia, forse anche troppo, mi faccio tante domande sul vino ed ho più di qualche sovrastruttura nell’interpretazione del vino. È più forte di me, ma non riesco a non vedere nel vino qualcosa di veramente ampio. Ma quando si tratta di elargire punti di vista cerco sempre di ricordare che si tratta di visioni personali derivanti dalla mia formazione e dalla mia peculiarità. Quindi non elargisco verità, ma piuttosto, almeno nelle intenzioni, un punto di partenza per stimolare la curiosità, soprattutto per chi non si occupa di vino per lavoro ma per passione.
Esiste un vino al quale ti piacerebbe assomigliare?
Non so, il vino è molto più complesso di me. Si tratta di modelli di riferimento, ma assomigliargli no, non credo. Magari. Trovo che ad esempio nei grandi vini di Borgogna ci sia un legame tra una certa autorevolezza e un messaggio di leggerezza e vitalità che è un valore meraviglioso. C’è la complessità di Marc Chagall e di Arshile Gorky in questa loro struttura contraddittoria e lirica, ma penso anche a Toti Scialoja, gigantesco poeta e grande pittore, in cui la perfezione formale del verso si sposa ad una grazia da mongolfiera. Più che assomigliare a questi colossi, mi piacerebbe potermici confrontare per tutta la vita, sarebbe già molto.
Venendo alla degustazione vera e propria, esiste una caratteristica comune a tutti i grandi vini, qualcosa che dentro la tua mente – al di là della sua valutazione numerica – te li pone su una categoria differente?
No, non c’è niente che mi venga in mente che accomuni i grandi vini, proprio per il loro valore di entità uniche. Devono essere vini attendibili per il luogo da dove vengono, non esercizi di stile; ma è un’espressione vaga, difficile da codificare. Il grande vino ha una ragion d’essere complessa che ne spiega l’imprevedibilità e la singolare qualità. Se poi vogliamo per forza ricercare qualche aspetto empirico e legato alla degustazione che li avvicini, potrebbe essere l’originalità e la suggestione dei profumi, la qualità e la forza della persistenza gustativa. Il grande vino deve lasciarsi ricordare, e parlo dell’impatto del congedo, non dell’attacco; del modo in cui dice “arrivederci”, non “buongiorno”. In ogni caso, quelli appena indicati sono fattori dirimenti ma non prerequisiti, dato che possono esistere – anzi esistono – veri e propri monumenti che in certe annate sono quasi inodori, così come ci sono diversi vini grandissimi che sono archetipi di grazia e non mostri di persistenza; hanno comunque qualcosa di speciale che ci tocca, per quanto alle volte sia difficile dire cosa ci tocchi, perché ci tocchi, e persino dove.
La critica enologica. Si può scrivere con autorevolezza di vino nel momento in cui – direttamente o meno – sia hanno interessi “specifici”? In sostanza, l’indipendenza è un prerequisito per poter fare critica in maniera autorevole?
È un requisito importante, e le persone lo riconoscono. Non è semplice essere indipendenti, e spesso dipende dalla propria indole. Credo che per essere davvero indipendenti non si possa essere persone venali, che danno grande importanza al denaro e traggano piacere dall’avere o mostrare ricchezza; per loro più difficile resistere ai condizionamenti che questo mondo inevitabilmente gli proporrà. È molto più comodo, per fare bene il mestiere di critico e dare un aiuto concreto a chi legge, avere un’indole sostanzialmente indifferente ai soldi, e quindi è anche una questione caratteriale. Peraltro, quello del giornalista e del critico enoico non è un mestiere che – se fatto come si deve – fa diventare ricchi. Da parte mia non scambierei mai un conto in banca gonfio – che non ho infatti mai avuto in nessun momento della mia vita – per un’immagine professionale da marchettaro, in cui in nome del denaro si dice quello che non si pensa e si promuove quello che non piace.
Bordeaux e Borgogna, sono mondi lontani sotto ogni aspetto, forse accomunati solo dai prezzi spesso irraggiungibili dei rispettivi “top player”. Sapendo della tua grande competenza in materia di arte, quale pittore incarnerebbe un grande Bordeaux? E quale un grande vino di Borgogna?
Rispondo perché sei un amico, ma sappi che trovo abbastanza trita la domanda. L’arte sta da una parte, il vino dall’altra. Se qualcosa di elettrico scocca, scocca in noi guardando i due mondi, mai tra loro direttamente. Comunque, vediamo: un grande Bordeaux…quando penso a Bordeaux mi vengono in mente concetti come la classe, la levigatezza, la perfezione dei contorni, l’esattezza del disegno, la monumentalità della composizione. Per questo lo accomuno agli artisti manieristi e agli scultori neoclassici, quindi in pittura Agnolo Bronzino, in scultura Antonio Canova. Per la Borgogna è molto più difficile, forse perché il suo vino ha ai miei occhi mille facce, a parte i problemi di focalizzazione e sovrainterpretazione che l’averla approfondita paradossalmente mi porta. Penserei a un artista che ha un concetto spudorato del colore, e la sua preminenza sula forma, pur conservando garbo espressivo e profondità: potremmo accordarci su Paul Klee.
Parlando di Bordeaux, personalmente ha sempre fatto impressione la classificazione dei Grand Crus del Medoc, praticamente immutabile ed eterna da oltre un secolo e mezzo, per il vino un’era geologica fa. Quanto è realistica al giorno d’oggi?
Quasi zero, anche perché riguarda solo Medoc, Graves e Sauternes. Per Saint-Emilion ne è stata fatta una più recente, ma ad oggi non esiste una classificazione per Pomerol, per l’Entre-deux-Mers, per la Côte de Blaye. È insomma una classificazione che a parte il difetto di risalire a metà Ottocento ha quello di essere incompleta, lontanissima da quella dei vini di Borgogna, che è più recente, assai più dettagliata e meno fossilizzata. Ovviamente sta benissimo ai grandi Châteaux, ma dati alla mano il mercato guarda ben altri parametri che la classificazione del 1855. Se a Latour o a Haut-Brion smettessero di fare vino buono, stai certo che annegherebbero nell’invenduto anche conservando il proprio status di Premiers Grands Crus Classés.
Borgogna. Il tuo monumentale libro su di essa parla di terroir e di geografia, quasi mai dei produttori e delle loro abilità. Un mio caro amico afferma però con certezza che “sia meglio un Bourgogne base di Coche-Dury che un Grand Cru di un produttore sconosciuto”. Qual è la verità, se ne esiste una?
La verità è che è meglio un Grand Cru di Coche-Dury. Pare una battuta stupida, ma intende essere una risposta seria. Le due entità, vigneto e vignaiolo, lavorano insieme, hanno sempre lavorato insieme. Se un produttore ha talento e savoir faire e nel gestire alla perfezione sia le uve nel vigneto che il lavoro in cantina, saprà probabilmente tirar fuori da terreni non altrettanto vocati un vino più buono dello Chambertin-Clos de Bèze di un produttore incapace. Questo non contraddice affatto il concetto di terroir, il quale non parla di qualità fattuale ma potenziale, e difatti quando si tratta di analizzare dossier per l’avanzamento di livello gerarchico dei vigneti non si procede all’assaggio dei vini, ma alla lunghissima, meditatissima analisi delle potenzialità ambientali.
C’è qualcosa nella tua carriera professionale che non avresti dovuto fare, scelte che viste oggi non rifaresti?
Di scelte ne ho fatte poche, di mio, ma ti devo dire che in fondo è stato meglio così. Non tutti i rapporti che ho avuto si sono risolti in maniera amicale, però guardando il mio comportamento onestamente rifarei quello che ho fatto; a livello di singoli articoli e singoli servizi, ecco, alcuni li organizzerei in maniera completamente diversa, alcuni forse non li scriverei proprio. Il libro sulla Borgogna cui ti riferivi prima, che sognavo dal 2010, alla fine l’ho fatto, così come mi è piaciuto fare queste ultime dispense e divagazioni sul vino francese, così come mi piace stare in aula con gli studenti e viaggiare con loro alla riscoperta di territori, di vini e di idee.
Una domanda che non c’entra nulla con il vino. Sulla tua pagina Facebook ti presenti in questo modo: Armando Castagno, antifascista. Cos’è, nel 2021, il fascismo per te?
Il fascismo è l’eredità dell’antica paura del diverso cui si reagisce con la prevaricazione, è la paura di perdere qualcosa, la difesa di valori stupidi figli di una sostanziale cattiveria di fondo, di un incattivimento autoriferito e autoalimentato che pure ha le sue spiegazioni in una società che è un tritacarne. Il fascismo nel 2021 è esattamente quello che era prima, ma cambia continuamente faccia, così come l’ha cambiata almeno tre volte durante il Ventennio stesso. Non so come ci si possa definire oggi fascisti, quando la prima cosa che il fascismo – al pari di altri regimi – ha fatto è stata zittire il dissenso e le voci critiche. Se il fascismo non si chiamasse fascismo, i fascisti li internerebbe. A me pare che in realtà la mano forte del dittatore la si invochi solo sul piano teorico, perché se davvero arrivasse una svolta autoritaria come minimo i due terzi dei sedicenti fascisti di oggi insorgerebbero rivendicando spazi di libertà e libera espressione.
Come ti vedi tra dieci o venti anni? Sarai ancora una figura centrale del giornalismo enoico oppure vorresti intraprendere qualche nuova strada?
Non ne ho idea, e non credo di essere una figura centrale di nulla. In realtà non sono una persona in grado di programmare la vita. Magari un giorno tornerò al progetto di una rivista indipendente, magari a quello di un progetto didattico, magari scriverò qualcosa che col vino non c’entra niente, o cambierò del tutto ambito di lavoro. Non è che non so cosa farò tra dieci anni, è che ho un’idea molto vaga di cosa farò tra due settimane. Potrei provare a reinventarmi benzinaio.